L’occasione di questo incontro è utile anche per informare brevemente sullo stato dell’arte del Disegno di legge in materia di rappresentanza di genere negli ordini professionali.
Il testo e la relazione di presentazione sono pronti e ne è stata data comunicazione alla Presidenza del Senato in data 19 luglio 2013. In questi mesi, è stata più volte valutata la possibilità di inserire il testo sotto forma di emendamento a decreti legge al momento della conversione. Tuttavia, come noto, il Presidente della Repubblica ha invitato formalmente a non utilizzare la procedura di conversione per ampliare il testo con argomenti non coerenti con il testo di legge in esame.
Pertanto, il testo potrà completare il suo cammino dopo la scadenza elettorale e dovrà essere discusso in Commissione Giustizia, competente per materia. Il tema è bipartisan, hanno già aderito molte altre senatrici e anche senatori.
Per quanto riguarda il tema specifico dell’incontro odierno, è opportuno richiamare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta ad Istanbul l’11 maggio 2014, detta “Convenzione di Istanbul”.
Il 18 giugno 2013 è stato affrontato in Senato il dibattito sulla ratifica. A questo link il mio intervento:
https://www.rosadigiorgi.it/?s=convenzione+di+Istanbul
La Convenzione è stata firmata dall’Italia (dall’allora ministro Elsa Fornero) nel settembre 2012 a Strasburgo.
L’Italia è il quinto Paese ad aver ratificato la Convenzione (19/06/2013).
Per entrare in vigore, la Convenzione necessita della ratifica di almeno 10 Stati, tra i quali 8 membri del CdE; alla data del 20 febbraio 2014, gli Stati firmatari sono 32, e le ratifiche 8 (Albania, Austria, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Italia, Montenegro, Portogallo e Turchia).
La Convenzione s’inserisce nel contesto di altri atti internazionali ratificati dall’Italia, come la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne del 18 dicembre 1979 (ratificata con legge 14 marzo 1985 n. 132), a cui si affianca il Protocollo opzionale del 1979, con la possibilità di rivolgersi al Comitato Onu per l’eliminazione delle discriminazioni.
L’Unione Europea ha avviato il processo di ratifica della Convenzione di Istanbul, e a breve lo farà anche la Francia. Mancano poche ratifiche all’entrata in vigore obbligatoria della Convenzione di Istanbul e sarebbe magnifico se ciò accadesse durante la presidenza italiana del semestre europeo.
La ratifica della Convenzione impone alcune modifiche al codice penale con l’inserimento del reato di matrimonio forzato e della sterilizzazione forzata. I reati di violenza psicologica (articolo 33 della Convenzione), di stalking (articolo 34), di violenza fisica (articolo 35), di violenza sessuale compreso lo stupro (articolo 36), di molestie sessuali (articolo 40) trovano già un’apposita regolamentazione e punizione nel nostro ordinamento. I primi due reati sono disciplinati nella legge 23 aprile 2009, n. 38 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” che ha introdotto l’articolo 612 bis, mentre la violenza sessuale è disciplinata dall’articolo 609 bis e la molestia sessuale dall’articolo 660 (si veda, sulla differenza tra le due fattispecie, la sentenza della Corte di Cassazione sezione terza penale, 4 ottobre 2012, n 38719). Così, sono già vietate le mutilazioni genitali femminili e punite in sede penale grazie alla legge 9 gennaio 2006 n. 7 “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile. L’aborto forzato, seppure non del tutto corrispondente all’articolo 39, è già previsto come reato dall’articolo 18 della legge 22 maggio 1978 n. 194.
Per garantire un costante miglioramento nell’attuazione della Convenzione e assicurare effettività ai diritti è stabilita l’istituzione di un nuovo organismo di controllo, il Gruppo di esperti per le azioni contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. (GREVIO).
Strettamente connessi al tema affrontato oggi nel convegno sono gli artt.13 e 17.
Articolo 13 – Sensibilizzazione
1. Le Parti promuovono o mettono in atto, regolarmente e a ogni livello, delle campagne o dei programmi di sensibilizzazione, ivi compreso in cooperazione con le istituzioni nazionali per i diritti umani e gli organismi competenti in materia di uguaglianza, la società civile e le ONG, tra cui in particolare le organizzazioni femminili, se necessario, per aumentare la consapevolezza e la comprensione da parte del vasto pubblico delle varie manifestazioni di tutte le forme di violenza oggetto della presente Convenzione e delle loro conseguenze sui bambini, nonché della necessità di prevenirle.
2. Le Parti garantiscono un’ampia diffusione presso il vasto pubblico delle informazioni riguardanti le misure disponibili per prevenire gli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione.
L’articolo 13 prevede campagne di sensibilizzazione sul tema delle violenza di genere e domestica, incluse le conseguenze di tale violenza sui bambini, e di informazione sulle misure per prevenire la violenza.
Il piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, adottato dal Ministro delle pari opportunità prevede:
“campagne di informazione e comunicazione, attraverso ogni mezzo di diffusione (incluso opuscoli e volantini da distribuire nelle farmacie, consultori, studi medici, ospedali) volte alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul fenomeno della violenza di genere e dello stalking ed alla pubblicizzazione del numero telefonico (1522) di pubblica utilità e dei servizi di assistenza messi a disposizione delle vittime.”
Il piano d’azione non fa specifico riferimento alla sensibilizzazione in merito alle conseguenze della violenza sui bambini.
Articolo 17 – Partecipazione del settore privato e dei mass media
1. Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità.
2. Le Parti sviluppano e promuovono, in collaborazione con i soggetti del settore privato, la capacità dei bambini, dei genitori e degli insegnanti di affrontare un contesto dell’informazione e della comunicazione che permette l’accesso a contenuti degradanti potenzialmente nocivi a carattere sessuale o violento.
L’articolo 17 prevede la partecipazione del settore privato e dei mass mediaall’elaborazione e attuazione di politiche, linee guida e norme di autoregolamentazione per prevenire la violenza di genere e rafforzare il rispetto della dignità della donna.
Esso prevede altresì misure che aiutino bambini, genitori e insegnanti ad affrontare un contesto dell’informazione che permette l’accesso a contenuti degradanti di carattere sessuale o violento.
A livello legislativo, non sono previste specifiche misure in tema mass media e immagine della donna o volte a prevenire la violenza di genere, né tali misure sono considerate nel piano di azione nazionale.
Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali con delega alle pari opportunità del 20 aprile 2012 è stato costituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità, un “tavolo tecnico paritetico per l’elaborazione di una proposta di Codice di autoregolamentazione recante linee guida del rispetto della figura femminile nei media”.
Nel campo della pubblicità, esiste un Protocollo d’Intesa, da ultimo rinnovato il 31 gennaio 2013, tra il Ministero delle pari opportunità e l’Istituto dell’autodisciplina Pubblicitaria (IAP). Il Protocollo parte dall’assunto che le norme del Codice di Autodisciplina IAP consentono agli organi autodisciplinari di attivare un controllo efficace sulla comunicazione commerciale per evitare che venga offesa la dignità delle donne. Sulla base dell’accordo, il Dipartimento per le Pari Opportunità, può chiedere il ritiro di una pubblicità che svilisce l’immagine della donna o che contiene immagini o rappresentazioni di violenza contro le donne o che incitano ad atti di violenza sulle donne.
Si segnala inoltre che nel contratto di servizio della concessione del servizio pubblico attualmente vigente, stipulato dalla Rai e dal Ministero dello sviluppo economico per il triennio 2010-2012, in più punti si fa riferimento ad un’offerta complessiva di qualità “rispettosa della figura femminile e della dignità umana, culturale e professionale della donna”. Nell’ambito dei compiti del servizio pubblico generale radiotelevisivo di cui all’art. 45 del D.Lgs. 177/2005 (Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), la RAI è tenuta a valorizzare la rappresentazione reale e non stereotipata della molteplicità di ruoli del mondo femminile, anche mediante la promozione di seminari interni al fine di evitare una distorta rappresentazione della figura femminile (art. 2, co. 3, lett. b) e a promuovere un nuovo corso nell’impiego della figura femminile, nel pieno rispetto della dignità culturale e professionale delle donne, anche al fine di contribuire alla rimozione degli ostacoli che di fatto limitano le pari opportunità (art. 2, co.3, lett. p). A tal fine, è previsto uno specifico monitoraggio finalizzato alla produzione di un documento di verifica a cadenza annuale (art. 2, co. 7).
Con riferimento alla qualità dell’offerta del servizio pubblico di cui all’articolo 3 del Contratto, inoltre, la RAI è tenuta a improntare i contenuti della propria programmazione assicurando, tra l’altro, una più moderna rappresentazione delle donna nella società, valorizzandone il ruolo (co. 1, lett. d). Nell’ambito dei programmi e delle rubriche di servizio di cui all’articolo 9 del Contratto, più in dettaglio, l’offerta televisiva deve comunicare al pubblico una più completa e realistica rappresentazione del ruolo che le donne svolgono nella vita sociale, culturale, economica del Paese, nelle istituzioni e nella famiglia, valorizzandone le opportunità, l’impegno e i successi conseguiti in diversi settori, in adempimento ai principi costituzionali (co. 2, lett. b).
La concessionaria del servizio pubblico deve impegnarsi a promuovere, nell’ambito della programmazione televisiva per i minori, modelli di riferimento, femminili e maschili, egualitari e non stereotipati (art. 12, co. 4, lett. c) e, con riferimento all’offerta per l’estero, una programmazione che rispetti l’immagine femminile e la sua dignità culturale e professionale, rappresentando in modo realistico il ruolo delle donne nella società (art. 14, co. 1).
L’articolo 17 sembrerebbe richiedere attuazione a livello legislativo.
Le fonti di queste preziose informazioni si trovano in accurati dossier redatti dagli uffici studi di Senato e Camera.
Qui il dossier curato dal Servizio studi del Senato:
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00739710.pdf
Qui altri dossier a cura della Camera dei Deputati
Mi fa piacere ricordare anche le parole pronunciate dalla Presidente della Rai nel corso del convegno organizzato da Senato e Camera in occasione della ratifica della Convenzione di Istanbul:
“Nonostante i passi compiuti, il lavoro da fare per ridurre i divari è ancora tanto e deve partire dalle origini,dalle radici del problema. Come ho più volte sostenuto, occorre attivare un insieme di strumenti coordinati ed organici: le quote di genere, la tassazione, gli strumenti di flessibilità, i programmi scolastici, i congedi di paternità obbligatori, ecc., sono tutti strumenti importanti e utili purché inseriti in un progetto ampio e fortemente sostenuto e voluto……I media sono una componente essenziale di questo processo in quanto propongono modelli che condizionano la cultura; sono stati a lungo responsabili di un’immagine delle donne che non ne ha aiutato il cambiamento…….Occorre, da un lato, trasferire il messaggio che la violenza sulle donne non è accettabile in nessun caso, in nessun contesto e che alcuni comportamenti non sono mai giustificabili e, dall’altro, costruire/ricostruire ruoli differenti ugualmente importanti nella società e nelle famiglie…. Per incidere e, se possibile, distruggere gli stereotipi che hanno dominato fino ad oggi la realtà mediatica intendiamo intervenire anche su linguaggi e terminologie, specie nell’ambito dell’informazione al fine di evitare di utilizzare, nei telegiornali, nei talk-show e nelle rubriche di approfondimento, tutti quei termini che possano “abbellire” o rendere “affascinanti” gli abusi e le violenze. È necessario non utilizzare espressioni e costruzioni semantiche che possano suggerire che la vittima sia stata in parte responsabile della violenza subita (“ha provocato”, “se lo è cercato”, “è masochista”, l’”ha lasciato”), o che conferiscano un taglio sensazionalistico/drammatico/teatrale alla notizia (“troppo amore”, “raptus”), mentre mettono in secondo piano il ruolo del contesto (per esempio: “famiglie non supportive”, “istituzioni poco tutelanti”, “denunce reiterate ma inefficaci”, etc.). Evitare di parlare più dell’aggressore che della vittima, con la conseguenza di “umanizzare” l’assalitore e “far sparire” la vittima.
È un obiettivo che richiede tempo, si tratta di compiere uno sforzo consapevole, condiviso e sistematico per pervenire a un linguaggio appropriato, preciso e sensibile alla violenza di genere”.
A conferma di quanto riferito dalla Presidente della Rai, le parole del Rapporto Ombra presentato dalla Piattaforma Cedaw a New York nel 2011:
«I media spesso presentano gli autori di femmicidio come vittime di raptus e follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femmicidi vengano perlopiù commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa. Al contrario, negli ultimi 5 anni meno del 10% di femmicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di malattie e meno del 10% dei è stato commesso per liti legate a problemi economici o lavorativi».