Il nostro modello di welfare sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva e da almeno una trentina di anni a questa parte è andato sempre più accentuando i segni della sua crisi in quanto non più in grado di adeguarsi e conformarsi ai cambiamenti della società; per quanto gli interventi pubblici si stiano estendendo ai diversi tempi della vita e anche ad altri versanti, oltre a quelli economici, tuttavia non riescono a soddisfare bisogni e aspettative sempre più personalizzate, corrispondenti a processi di individualizzazione e di consapevolezza di sé propri della moderna società post industriale.
L’attuale crisi economica e finanziaria ha acuito la fragilità di alcune fasce della popolazione, giovani, donne, anziani, provocando sul piano culturale e sociale l’indebolimento dei legami e delle relazioni.
L’individuo moderno è più insicuro, più povero e più solo. Dobbiamo promuovere quindi una strategia di modernizzazione dello stato sociale incentrata sull’idea di innovazione sociale. Strutturare nuove misure e modelli capaci di combattere le povertà, anche quella educativa e culturale, e promuovere l’inclusione sociale.
Sono prodotti, servizi, modelli che rispondono ai bisogni sociali e che nello stesso tempo creano nuove relazioni sociali e collaborazioni fra enti pubblici e privati e mondo del cosiddetto terzo settore inteso in senso lato.
E’ ormai acquisito, anche a livello di politiche europee, fin dai primi anni duemila, “che la dinamica che caratterizza l’innovazione sociale implica trasformazioni tanto di prodotto – i servizi offerti – quanto di processo – chi pensa, chi sviluppa, finanzia e offre il servizio – che si distinguono dal resto delle sperimentazioni nel sociale per il fatto di riuscire a migliorare concretamente e in modo duraturo la qualità della vita dei cittadini”, coinvolgendoli e attivando relazioni fra loro (Bandera,2014 per Fondazione Cariplo).
Il welfare si trasforma, secondo questa visione, e produce quindi non solo interventi pubblici, istituzionalizzati e centralizzati, ma anche interventi comunitari e territoriali, in cui l’iniziativa di soggetti privati o pubblici di prossimità ha spazio nel rapporto/relazione con i cittadini destinatari dell’intervento.
Ma non basta. Con questa modalità i cittadini stessi progettano e partecipano in forme diversificate fin dalla fase iniziale del percorso, per sentire proprio l’intervento e per plasmarlo secondo le esigenze proprie e della comunità di appartenenza.
L’ente pubblico può assumere il ruolo di facilitatore, il ruolo di intermediazione, un ruolo che sarà svolto al meglio se sarà accompagnato da un processo di sburocratizzazione e di alleggerimento amministrativo nella gestione e nell’erogazione della parte di risorse pubbliche eventualmente necessarie in fase di progettazione e di prima gestione del servizio.
Questi modelli di nuovo welfare potrebbero rispondere in modo più adeguato alle trasformazioni sociali, in quanto progettazione, gestione e controllo avverrebbero nelle sedi di fruizione, a stretto contatto con i soggetti destinatari dell’intervento.
Si rafforzerebbe la dimensione comunitaria, la vicinanza e la solidarietà tra le persone. Società e cittadini sarebbero coinvolti in un processo di partecipazione che renderebbe stabile, incisiva sostenibile ed efficace l’azione prodotta.
Le parole d’ordine sono inclusione, prevenzione del disagio, sussidiarietà con gli enti pubblici. Risorse economiche, ma anche energie preziose del mondo del volontariato e dell’associazionismo che si muovono in una prospettiva di valorizzazione della persona e di crescita del contesto sociale di riferimento.
Pensiamo a progetti già attivi nelle scuole che sono esempio di innovazione sociale, di inclusione e di sussidiarietà. Sono coinvolte le scuole che vengono supportate da soggetti privati o del privato sociale o del volontariato nella cura del bambino e del ragazzo nelle ore pomeridiane e non solo, anche la mattina in attività aggiuntive. Attività che danno una risposta alla piaga della povertà educativa, che riescono a coinvolgere le famiglie, che consentono ai ragazzi di poter accedere a sport, proposte culturali, conoscenze tecnologiche che non sempre vengono messe a disposizione dalle scuole.
Un’economia della cultura circolare, così la definirei, con i soggetti pubblici, ma anche privati, presenti nel territorio che si fanno carico del processo educativo dei giovani che non può esaurirsi all’interno della scuola, e quindi musei, teatri, associazioni di danza e di recitazione, di musica e imprese di artigianato e aziende del territorio cui afferisce l’istituto scolastico.
Sussidiarietà certo. Una sussidiarietà che ha un obiettivo eccezionale, ossia quello di dare opportunità ai nostri ragazzi. Cosa può esistere di più utile per il bene del paese, mi chiedo?
Le risorse che sulla base dei progetti presentati vengono messe a disposizione delle scuole da parte del MIUR o dal MIBACT, o anche dalle Regioni e dai Comuni in questi ultimi anni hanno esattamente questo scopo. Quello di indurre le scuole a fare da volano ad altri investimenti sulla formazione e sui giovani nel territorio di riferimento. Ciò favorirà l’integrazione fra culture per supportare il cammino dei figli di immigrati, ma anche delle stesse famiglie di immigrati che vedranno crescere le opportunità formative e culturali nei luoghi dove vivono.
Possiamo creare insomma un contesto virtuoso che abbia al centro la persona.
Se tutto questo viene messo a regime avremo la possibilità, come prima accennato, di avere l’ente pubblico, in questo caso la scuola, nel ruolo di soggetto regolatore che programma, risponde alle sollecitazioni del privato che vuole investire e del mondo del terzo settore che vuole co-progettare e svolgere un prezioso ruolo di sussidiarietà da educatori.
Aggiungo una riflessione rispetto ai giovani. Alcuni sono senza lavoro e non lo cercano nemmeno (e questo è un problema gravissimo da affrontare nelle società moderne) altri invece che hanno acquisito competenze hanno il desiderio di metterle a disposizione, ma non hanno opportunità. Il modello di welfare che qui si propone offre spazi e dinamiche di impegno a tutti loro.
Offrire competenze ai più giovani da parte di altri giovani, attivare relazioni e scambi di esperienze può giovare agli uni e agli altri attivando un profondo senso di appartenenza alla comunità e generando una virtuosa attitudine al servizio verso gli altri. Inoltre mettere a disposizione conoscenze, creando modelli cooperativi di formazione diffusa può rappresentare una modalità realmente innovativa di welfare comunitario e relazionale.
L’ambito della cultura offre altri esempi di innovazione sociale.
Recenti sono le leggi su cinema e spettacolo che mettono a disposizione di enti pubblici e dei privati risorse per la ristrutturazione di teatri, cinema e luoghi polivalenti per spettacoli o attività ricreative e culturali.
Investimenti che puntano a supportare i Comuni per le ristrutturazioni, ma che si rivolgono anche e soprattutto ai privati proprietari di tali strutture, perché creino luoghi di incontro, di scambio, di crescita reciproca e perché avviino attività che garantiscano inclusione e che nello stesso tempo producano nuova occupazione di tipo pregiato, nell’ambito della formazione e della cultura. Una sfida che ambisce a “rammendare” tessuti sociali di isolamento e disgregazione. Una proposta di crescita territoriale che sfida le comunità e i soggetti che in quei contesti vivono. Importante è l’impiego di risorse private. Lo Stato, oltre al contributo previsto dalla legge cinema, interviene poi con defiscalizzazioni e detassazione, ma la proposta richiede una risposta da parte del territorio di riferimento che attivi poi energie e progetti per far rivivere il luogo con iniziative e dando opportunità di lavoro alla comunità locale.
Già, il luogo. Quanti i luoghi da far rivivere per ricostituire una storia, una tradizione, perfino una nostalgia in un territorio. Luoghi abbandonati. Edifici fatiscenti. Lacerazioni nel tessuto urbano, ma non solo. In quante campagne, in quanti sentieri. Quanti luoghi abbandonati nelle nostre coste. E nelle nostre montagne o nei paesi arroccati nei nostri monti.
Ecco un’altra sfida per un nuovo welfare basato su lavoro creativo e di relazione. Nuove funzioni o antichi mestieri, botteghe e luoghi di accoglienza o di vacanza o di produzioni agricole di qualità che possono vedere coinvolte categorie di disabili, giovani in cerca di identità nuove, comunità di immigrati che cercano opportunità.
Si colloca qui anche la sfida green, cui tanta attenzione dedichiamo e su cui tante fasce di popolazione attendono proposte. La riqualificazione delle nostre periferie, con gli investimenti che i governi di centrosinistra stanno mettendo a disposizione, devono essere giacimenti di idee innovative, di occasioni per sviluppare creatività e nuovi lavori e per creare luoghi di relazione, di housing sociale, centri di accoglienza per i nostri anziani e per giovani e bambini che con le famiglie devono frequentarli. Via dalle case e dai computer in cerca di senso e di umanità. Un arricchimento complessivo che va ricercato, finanziato e costruito con le idee innovative del nuovo welfare. Gestire luoghi di incontro o di ristoro recuperati dal degrado o restituire all’uso pubblico in città e nelle nostre campagne, al mare o in montagna, luoghi di valenza culturale, paesaggistica, turistica, agricola e sportiva non rappresenta forse un modello di innovazione sociale, un modo per mettere insieme risorse e intelligenze diffuse nel territorio e nelle comunità per recuperare senso di appartenenza e tradizione e relazioni fra generazioni?
Come si vede dagli esempi che ho voluto proporvi l’innovazione sociale e il welfare comunitario sono già presenti in alcune esperienze virtuose, ma stentano ancora a diventare patrimonio comune, in ogni parte d’Italia e, aggiungerei, d’Europa. È necessario favorirlo. È necessario che ci sia la consapevolezza che queste nuove forme di relazione e di solidarietà diffusa sono un punto di arrivo virtuoso per gli uomini e le donne del nostro tempo, ma sono anche un ritorno, la riscoperta di un modo più pregiato e complessivamente vincente di gestire le relazioni fra persone e nel mondo del lavoro. Un modo per riscoprire il senso di appartenenza a una comunità attraverso la prossimità che non significa un ritorno al vecchio caro mondo antico, così poco comodo e tanto ingiusto nei rapporti sociali, ma significa voler valorizzare il meglio del senso di comunità che la globalizzazione ha disperso. Dovremo imparare a muoverci nel difficile equilibrio fra g-global e g-local, fra spersonalizzazione e recupero dei rapporti interpersonali nel lavoro e nella famiglia. È la sfida della modernità e della sostenibilità nelle relazioni pubbliche, nel lavoro, nell’ambiente e nei rapporti fra persone. Una sfida difficile per la politica e per tutti noi.