“Cambiare il Paese e non denigrarlo”. L’ultimo colloquio con il Presidente Ciampi

“Cambiare il Paese e non denigrarlo”. L’ultimo colloquio con il Presidente Ciampi

“Non ho rimpianti, ma mi preoccupa l’assenza di valori e di etica. L’unico grande cruccio è che il cancro P2 non sia mai stato estirpato fino in fondo”

di MARIO CALABRESI

BISOGNA essere orgogliosi di essere italiani, impegnarsi sempre per migliorare e cambiare il Paese, non denigrarlo. L’autodenigrazione è una delle peggiori forme di provincialismo di cui siamo ammalati”. L’ultima volta che ho incontrato Carlo Azeglio Ciampi nel suo studio al Senato gli ho chiesto di parlarmi della sua vita.

Volevo capire se coltivasse rimpianti, se ci fossero occasioni mancate ma soprattutto cosa lo avesse fatto più felice nella sua carriera pubblica.

Era il gennaio del 2013, un mese prima delle ultime elezioni politiche, ed ero andato a trovarlo per raccogliere un testo di ricordo dell’Avvocato Agnelli nel decennale della sua scomparsa. Fece un bilancio puntuale della loro amicizia e di un mondo che considerava scomparso: “Un mondo in cui ci si dava del lei anche se ci si conosceva da anni, un mondo in cui si era cresciuti influenzati dall’ideale crociano della religione della libertà, un mondo in cui la riservatezza era un valore”.

Quando finì con i ricordi, gli chiesi cosa rimpiangesse di più. Cominciò a parlare piano, pesando ogni parola. Rileggendo gli appunti di quella mattina di tre anni fa mi sembra di sentire quell’allegro e squillante accento livornese, anche se era già affaticato e malato.

“Non voglio sembrare presuntuoso ma non ho rimpianti”. Si fermò a pensare e aggiunse: “Non ho rimpianti sulla mia vita, ma se mi chiede cosa mi preoccupa allora le dirò che negativa è l’assenza di valori, la carenza di etica personale e istituzionale, questo fa paura. Forse eravamo più sani. Se non hai valori di riferimento risollevarsi è difficile, è più duro perché mancano gli appoggi”. Rimase in silenzio a lungo, pensavo non avesse altro da dire, invece ricominciò quasi di slancio: “In Italia non si è data sufficiente importanza a cosa è stata la P2, ma Villa Wanda è ancora aperta e il titolare è ancora lì, vivo e vegeto (Licio Gelli sarebbe scomparso due anni dopo, il 15 dicembre 2015), e molti degli aderenti a quella loggia massonica, non c’è bisogno di fare nomi perché li ha ben presenti, sono ancora in circolazione. La stagione della P2 non è mai finita, ha continuato ad agire sotto traccia, continuando ad inquinare le istituzioni italiane. Il fatto di non aver estirpato fino in fondo questo cancro è un grande cruccio”.

Scosse la testa e aggiunse: “Quanto a me, nonostante le cariche che ho ricoperto ho avuto una vita semplice e regolare”. Allora scherzai sul fatto che era l’unico italiano ad aver ricoperto l’incarico di Governatore della Banca d’Italia, di ministro del Tesoro, di presidente del Consiglio e di presidente della Repubblica, non proprio una vita semplice. Che forse doveva invece rivelarmi il segreto di una tale carriera.

“La mia forza è stata che non ho mai aspirato a nessuna carica che poi ho ricoperto. Lavorare con passione e costanza senza perdere tempo a pensare cosa fare dopo: questo è il segreto”. Per convincermi iniziò a entrare nei dettagli: “La nomina di Governatore della Banca d’Italia feci il possibile per evitarla. C’è una lettera che scrissi a Baffi in cui lo invitavo a desistere dalle dimissioni, doveva rimanere. E mi offrivo di restare direttore generale per garantire continuità con qualunque Governatore”.

“Non volevo fare il Governatore come non volevo fare il presidente della Repubblica.Quando cominciò lo spoglio dei nomi nella prima votazione, essendo sicuro che non sarei stato eletto in quel primo turno, avevo già pronta la dichiarazione in cui ringraziavo tutti coloro che avevano votato per me ma li invitavo a desistere e a non andare avanti perché non avrei accettato. Non volevo essere divisivo e parte di una battaglia. Poi ci fu il voto unanime e questo mi diede la forza di accettare. Di questo è testimone Mario Draghi, eravamo nel mio ufficio a lavorare durante lo spoglio e sulla scrivania avevo pronta la dichiarazione”.

Di cosa è più orgoglioso della sua presidenza?
“Ho sempre creduto nella bandiera, nell’inno e nel concetto di Patria e penso di essere riuscito a risvegliare un comune sentire nella maggioranza degli italiani. Avevo a cuore il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia e l’ho lanciato con largo anticipo, non è poi toccato a me realizzarlo ma posso dire con orgoglio di aver messo la prima pietra di quelle celebrazioni”.
“Era importante riscoprire i valori nazionali e lo volli fare quando c’era il centrosinistra al governo perché temevo che altrimenti potesse sembrare un’operazione fatta nello spirito della destra nazionale, soprattutto la riscoperta della parola Patria. Ho sofferto nel vederla a lungo dimenticata e messa da parte, insieme alla bandiera e all’inno di Mameli. Poi piano piano gli italiani sono tornati a riconoscersi in questi sentimenti. Volevo che tutti, di qualsiasi orientamento, non avessero più paura o imbarazzo nell’usare la parola Patria. É successo! Ho avuto modo di rendermene conto nei miei incontri con i cittadini: ho visitato tutte le province, erano 103 durante il mio settennato, un viaggio che nessuno aveva mai fatto e che probabilmente nessuno farà mai più, perché solo un matto poteva avere un’idea del genere”.

Me ne racconti uno che le è rimasto particolarmente caro.
“Ne voglio ricordare due, che porto nel cuore: la visita del 2003 a Brembilla, piccolo paese della bergamasca nella zona delle valli leghiste, dove fui travolto dall’entusiasmo degli abitanti e rimasi commosso nel vedere il tricolore ad ogni finestra e tre anni prima il viaggio a Nuoro. Salii sull’elicottero a Cagliari e in volo mi dissero: “Presidente, troverà persone chiuse e asciutte”, invece quando atterrai al campo sportivo mi accolse una folla piena di entusiasmo con le bandiere in mano. Pensare che queste dovevano essere le due visite più difficili. Il viaggio in Italia è stata una delle cose più felici della mia vita”. “Anche per questo ho ricoperto e rilanciato il Vittoriano con la scritta incisa nel marmo “L’Unità della Patria, la libertà dei cittadini”. Su quella balconata con tutte le statue delle 16 regioni italiane d’allora, perché tante erano quando l’Altare della Patria venne inaugurato nel giugno del 1911, ho voluto portare la cerimonia di apertura dell’anno scolastico. Poi si è preferito spostare la celebrazione al Quirinale ma per me quello resta un luogo fondamentale e simbolico dell’unità degli italiani”.

Quale è stata la sua stella polare?
“Ho sempre creduto all’Europa, come tutti quelli della mia generazione che hanno conosciuto la guerra, alla necessità e anche alla possibilità di costruire un’Europa sempre più integrata, a partire dalla moneta. Lì tenevo puntati gli occhi. Bisogna essere orgogliosi di essere europei e di essere italiani. E glielo ripeto: basta autodenigrazione, è una delle peggiori forme di provincialismo “. Dopo aver trascritto questi appunti sono andato a cercare le foto di quei suoi due viaggi a Brembilla e Nuoro e l’ho ritrovato come mi piace ricordarlo: sorridente, circondato da una folla a cui stringe le mani.

FONTE: www.repubblica.it