Signor Presidente, onorevoli senatori, il prossimo appuntamento del Consiglio europeo è profondamente segnato da ciò che è avvenuto il 13 novembre in Europa. È un vertice che ha all’ordine del giorno rilevanti questioni di natura internazionale ed economica, ma che si inserisce nel primo appuntamento ufficiale dopo i tragici attentati di Parigi. E dico ufficiale perché si è già svolto un Consiglio europeo straordinario, domenica 29 novembre, sui temi dell’immigrazione e dei rapporti con la Turchia e abbiamo già avuto modo di incontrare molti colleghi, Capi di Stato e di Governo, nella stessa Parigi, in occasione del prezioso summit sulla sostenibilità ambientale.
Questa, però, è la prima circostanza in cui i 28 Paesi dell’Unione europea si riuniscono dopo gli attentati al Bataclan, allo Stade de France e dopo gli attentati nei ristoranti e nelle birrerie della capitale francese.
Si tratta, dunque, di decidere se vogliamo semplicemente fare una riflessione sui rilevanti e importanti punti all’ordine del giorno o tentare di elevare il tono e il livello della discussione per riflettere sul se l’Europa possa oggi avere una strategia che vada oltre la mera reazione del giorno dopo giorno, se sia, cioè, capace di avere una visione ampia, alta e nobile di ciò che ci attende da qui ai prossimi mesi e, forse, ai prossimi anni. Io, infatti, credo – non sono l’unico e il più importante – fermamente e fortemente che la risposta a ciò che è avvenuto a Parigi, e che si inserisce in un anno davvero difficile cominciato nella capitale francese con gli attentati di «Charlie Hebdo» e con gli ulteriori eventi di sangue dominati dal terrorismo jihadista in Danimarca e in Belgio, non possa che toccare all’Europa e l’Europa.
Dunque, c’è qualcosa di più che un semplice valore simbolico nella scelta del Governo italiano di predisporre una piattaforma di riflessione comune e condivisa partendo dalla Sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio. Abbiamo scelto di raccontare come, a nostro giudizio, l’Europa e l’Italia avrebbero dovuto reagire in un luogo simbolico, la Sala degli Orazi e Curiazi, cioè la sala nella quale cinquantotto anni fa venivano firmati i Trattati istitutivi della Comunità europea. È come se, con quell’atto, avessimo detto che l’Europa deve rispondere all’ondata di terrore con un disegno che tenga saldamente i piedi ancorati nel sogno e contemporaneamente sia capace di essere concreta e realista.
Abbiamo individuato tre strategie di reazione come Paese: quella di sicurezza, quella diplomatica e quella militare. Non esiste alcuna possibilità di libertà se i cittadini non si sentono sicuri. E purtroppo non bastano le statistiche, che pure sono positive: diminuzione dei reati e miglioramento della qualità della vita. Non bastano le statistiche per rendere più sicuri i cittadini: il percepito necessita di alcune scelte anche di valore evocativo e simbolico. Per questo abbiamo scelto di rispondere innanzitutto sul piano interno con una serie di misure che sono in primo luogo la valorizzazione delle nostre Forze dell’ordine, attraverso l’assegnazione alle forze di sicurezza e militari di 80 euro mensili e di nuovi mezzi, nonché attraverso un significativo budget assegnato alla difesa per eventuali iniziative di natura internazionale, con una voce importante sul tema della cyber security. Non starò qui ad affrontare un tema che potrebbe risalire alle origini della discussione europea. Quando, però, si dice che dobbiamo condividere sempre più fortemente e più attentamente le nostre informazioni e il nostro sistema di difesa non si sta ponendo un tema di novità. È almeno dal 1954 – ricordiamo le posizioni del generale de Gaulle – che i nostri Paesi discutono di come creare un sistema di difesa comune. E non è neanche pensabile che ogni volta, dopo un attentato, si auspichi una maggiore integrazione dei sistemi di sicurezza, che poi comunque non vengono messi in condizione di agire con la dovuta tempestività. Ma il punto che noi vogliamo dire è che sulla cyber security l’Italia può essere leader in Europa e nel mondo, attraverso l’azione delle proprie Forze dell’ordine, delle proprie forze di sicurezza, attraverso l’azione di alcune aziende importanti del nostro meraviglioso Paese, attraverso la qualità ingegneristica e innovativa di tanti talenti che lavorano in Patria, e che sono pronti a tornarvi ove lavorino all’estero, attraverso il coordinamento dell’intelligence, che su questo può giocare un ruolo rilevante.
Dunque, il primo tema è sicurezza. Noi abbiamo scelto di rispondere a ciò che è avvenuto partendo innanzitutto dalla percezione dei nostri concittadini.
Il secondo elemento è avere investito sulla iniziativa diplomatica. Noi non stavamo al tavolo di Vienna, dove i cinque più uno hanno discusso dell’Iran. Non voglio aprire polemiche sul passato perché, quando si parla di politica estera, è utile – e vorrei dire persino necessario – riscontrare il più ampio consenso possibile. E in tutte le circostanze in cui mi è stato possibile, ho evidenziato come valore positivo del sistema Paese gli elementi di continuità tra Governi diversi, inserendomi a mia volta, con l’Esecutivo che ho l’onore e l’onere di guidare, in questa linea di continuità. Così fa un Paese civile.
La politica estera non si basa sulle impressioni e sugli umori del momento, ma ha una sua storia, una sua tradizione e, naturalmente, una necessità di espressione di forza e di potenza, per la quale non ho mai aperto una polemica sul motivo per cui non sedevamo al tavolo di Vienna. Fatto sta che adesso, nella stessa città, si riunisce un tavolo con gli stessi interlocutori, allargato all’Italia e alle potenze della regione, che affronta il tema della Siria.
Noi siamo tornati a bordo, e lo dobbiamo, innanzitutto, al nostro rapporto storico, ineludibile e assolutamente costitutivo dell’identità della nostra politica estera, con gli Stati Uniti d’America e, segnatamente, con la Casa Bianca e con il Dipartimento di Stato. Il segretario di Stato John Kerry è stato decisivo in questa scelta, insieme naturalmente alla nostra struttura di Governo.
Siamo dunque tornati al tavolo che conta sulla questione siriana e abbiamo ospitato a Roma, con i Ministri degli esteri dei principali Paesi del mondo, un importante appuntamento sulla Libia, che speriamo possa finalmente accompagnare il percorso di pacificazione di quella martoriata terra, che tante preoccupazioni dà dal punto di vista della tenuta, anche se, a onor del vero, non risultano quei segnali e quelle schermaglie di ulteriore preoccupazione che sono stati riportati da alcuni giornali internazionali.
Non risultano, in modo così evidente e lampante, a larga parte della comunità internazionale. Ma, anche se non risultano minacce incipienti e imminenti, credo sia assolutamente fondamentale che la Libia sia considerata il perno della nostra politica nel Mediterraneo. E penso sia assolutamente chiaro, a noi e ai nostri alleati, che se c’è un Paese in cui l’Italia svolge, può svolgere e svolgerà una funzione, che non definirei di leadership ma di accompagnamento, con un ruolo di rilevante impegno, non può che essere la Libia; e non tanto per rivendicazioni territoriali, ma per il senso profondo che la storia ha e anche per le opportunità che la storia può aprire.
Dunque, la sicurezza e la diplomazia. Ma non bastano. Lo stucchevole dibattito che talvolta alcuni commentatori e autorevolissimi professionisti, con un po’ di pressappochismo – mi spiace dirlo – hanno aperto sul fatto che l’Italia non fa abbastanza nella guerra militare contro l’ISIS, si scontra con la realtà.
Noi abbiamo detto una cosa della quale siamo convinti e fieri: non si interviene di pancia con reazioni senza una strategia, in una complessa vicenda, in una polveriera qual è il Medio Oriente. Ma questo non significa che noi ci tiriamo indietro di fronte a responsabilità che non soltanto adempiamo con onore, ma che sono addirittura talmente imponenti da fare dell’Italia il secondo Paese, dopo gli Stati Uniti, come numero di donne e uomini che lavorano per la pace nel mondo.
Questo vorrei fosse chiaro, perché non è un elemento che vale per il nostro Governo, non è un distintivo che si mette il Governo pro tempore. È un elemento qualificante l’identità nazionale e dovrebbe essere un elemento di orgoglio che vede tutto il Parlamento, tutto il Senato, convintamente impegnato a sostenere le nostre donne e i nostri uomini che a Herat guidano il faticoso processo di transizione del presidente Ghani e di quel Paese; che in Libano guidano la missione UNIFIL; che in Kosovo e nei Balcani fanno sentire l’importanza di un settore in un’area che rischia di essere la prossima grande emergenza, se non interveniamo con lungimiranza e visione. Perché i nostri carabinieri in Iraq sono straordinari punti di riferimento nella formazione delle forze dell’ordine locali; perché i nostri ammiragli guidano la missione Atalanta in Somalia e la missione europea nel Mediterraneo; perché in tutte le aree del mondo maggiormente soggette a difficoltà, in tutti i teatri del mondo l’Italia c’è con l’orgoglio di chi rappresenta una forza di pace, di libertà e di sicurezza a difesa dei diritti delle donne, dei diritti dei bambini, a difesa della libertà e della pace, e dovremmo essere tutti insieme grati a queste nostre concittadine e concittadini.
Dunque, non è che se mettiamo quattro Tornado in più o in meno cambia qualcosa dal punto di vista del nostro impegno. Noi dobbiamo essere fedeli a un principio: quando si interviene militarmente, si deve aver chiaro l’oggi e il domani, perché abbiamo già visto in alcuni scenari come l’intervento che non ha chiaro il domani crea problemi sull’oggi. Ecco perché abbiamo dato ai nostri alleati e partner, a partire dal Ministro della difesa, la disponibilità a farci carico di una situazione di difficoltà che sta nel cuore dell’Iraq, nei pressi di Mosul.
Il Ministro della difesa riferirà, nelle forme che le Commissioni vorranno individuare, su questa possibilità, che è quella di poter finalmente agevolare il restauro, il recupero di un’importante struttura, di un’importante diga che oggi è nelle mani degli italiani. Bisogna, anche su questo, avere la chiarezza di dircelo, in un Paese che troppo spesso si compiace di vittimismo e di lamentela: gli ingegneri italiani, i manovali italiani, le maestranze italiane in generale sono persone serie, riconosciuti nel mondo per la loro qualità, e sono capaci di fare cose che altri non riescono a fare.
Ovviamente toccherà al Parlamento audire, nelle forme che riterrà opportune, i Ministri interessati, a cominciare da quelli degli esteri e della difesa, ma noi daremo questa disponibilità, perché non ci tiriamo indietro rispetto a ciò che è una condizione vera per combattere e contrastare l’ideologia di morte di Daesh e i rischi che possono arrivare, ad esempio, in quel Paese, l’Iraq, nel quale onoriamo la memoria di nostri caduti, persone che hanno perduto la vita, suscitando un’ondata di emozione popolare forte, nel tentare di riportare la pace e la libertà.
Sicurezza, diplomazia, risposta militare. Noi diciamo all’Europa che, se vuole essere in grado di tornare ad essere un grande faro nel dibattito mondiale, deve giocare questa partita non sulla base delle impressioni del momento ma con una strategia. Allora, se di strategia si parla, bisogna avere anche il coraggio di guardare l’altra faccia della medaglia. Bene la sicurezza, bene la diplomazia, bene la risposta militare, ma non nascondiamoci di fronte alla realtà. Gli attentatori di Parigi erano in maggioranza nati e cresciuti sul territorio europeo; gli attentatori di Parigi si muovevano liberamente all’interno degli Stati europei, passando dalle periferie di Bruxelles a quelle della capitale francese. Così come era europeo colui il quale ha attaccato la sinagoga in Belgio o in Danimarca; così come erano europei coloro i quali hanno sparato nella redazione di «Charlie Hebdo»; così come era europeo il boia dello Stato islamico di Daesh, ucciso da un drone americano paradossalmente lo stesso giorno, il 13 novembre, in territorio siriano, ma nato e cresciuto nel Regno Unito.
Allora se questo è vero, se l’Europa vuole riflettere su se stessa, non può non prendere atto che esiste un’emergenza che è altrettanto importante di quella diplomatica, militare e securitaria, e cioè che è la necessità di un grande investimento culturale, educativo, valoriale.
Io non do una lettura sociologica, per la quale il terrorismo è la risposta dei poveri; non è così. Può essere così in alcune zone del mondo – per carità di Dio – ma non è così nella stragrande maggioranza delle espressioni del terrorismo jihadista. Certo non era un problema economico a segnare l’esperienza di Osama Bin Laden; certo non è un problema economico a segnare le scelte che hanno fatto in tanti in quell’area del mondo. Ma do ugualmente una lettura sociale e culturale, per cui se noi non siamo in grado di investire in educazione e cultura, se noi non siamo in grado di dare una risposta urbanistica nelle nostre periferie, se noi non siamo in grado di creare delle città in cui si possa tornare a praticare il valore del dialogo, della tolleranza, dell’accoglienza, della ricerca, della conoscenza, se non diamo questo tipo di risposta, ogni tipo di reazione sarà parziale.
Pensare che si risponda al grande dramma che sta vivendo il nostro pianeta immaginando di poter bombardare e immaginando che, bombardando, si risolva tutto significa ignorare un fatto: che il primo luogo della politica estera dell’Europa di oggi – e vorrei, con il vostro consenso, dirlo domani in Consiglio europeo – sono le nostre città, sono le nostre periferie. Sono i luoghi dello scontento che prende le forme di un nichilismo imperante, tale da portare ragazzi di vent’anni, che magari hanno giocato a calcio e hanno fatto esperienze nelle scuole pubbliche dei nostri Paesi, a diventare coloro i quali si imbottiscono di esplosivo e si fanno saltare in aria in un concerto, uccidendo ragazzi della loro generazione, come era – e vorrei ricordarla in questa sede, insieme a tutti voi – Valeria Solesin. A lei e alla sua famiglia, che ha dato lezioni di dignità straordinarie, va l’abbraccio, credo di poter dire, a nome di tutto l’arco costituzionale.
Dunque, la risposta culturale. L’Italia offre una direzione. So che c’è una discussione, anche tra di noi; la legge di stabilità sarà il luogo nel quale questa discussione potrà trovare un dibattito, mi auguro, fecondo e fertile.
Ma noi abbiamo affermato, nella Sala degli Orazi e Curiazi, cioè nella sala in cui è nata l’Europa, che per ogni euro investito in sicurezza occorre avere un euro investito in educazione; che per ogni euro investito in polizia occorre avere un euro investito nelle nostre periferie; che per ogni euro investito nel blindare le case – perché può esserci anche questo – occorre avere un euro per spalancare le piazze, per creare occasioni di dialogo, per permettere alle ragazze e ai ragazzi di capire che l’identità europea, cui l’Italia concorre in modo cruciale, non è soltanto un’identità difensiva, basata sulla paura e sui muri, ma è, al contrario, l’idea greca e romana di un grande luogo dello spazio, della mente, dello spirito che ci rende orgogliosi di essere italiani. Permettetemi di dirlo, al netto delle opinioni che rispetto, che sono anche diverse e divise.
Il nostro tentativo di coinvolgere i giovani, i diciottenni (vedremo se ci saranno altre soluzioni, noi siamo pronti a discutere di tutto), è volto a dire loro: ti riconosco qualcosa se tu accetti di andare a teatro o in un museo, se accetti di non stare rinchiuso in casa nei luoghi delle tue sicurezze e se sei disposto a formarti dal punto di vista educativo ponendoti delle domande, sulla bellezza di un’opera teatrale o di musica. Non dimentichiamo che uno dei video più visti su Youtube è quello dell’imam estremista che in Francia educa i bambini a odiare la musica, ad aver paura della musica. A che serve l’Italia se non difende la musica, l’arte, la cultura, i propri teatri? A che serve l’Italia se non ha il coraggio di intervenire in modo diverso, anche sulle questioni legate all’urbanistica?
Nel dibattito che farete e che faremo sul disegno di legge di stabilità ci sono più soldi per il diritto allo studio, ci sono più soldi per lo sport.
Ieri abbiamo presentato, con il presidente Malagò, un programma di interventi allo ZEN di Palermo, a Scampia, nelle periferie di Roma, di Milano, di Barletta, perché pensiamo che anche quello sia un pezzo della risposta. Se qualcuno ironizzerà, dicendo che andiamo incontro al terrorismo e alla minaccia dell’estremismo facendo campi da calcetto e aprendo teatri, risponderemo che siamo il Paese che più di ogni altro, dopo gli americani, ha donne e uomini impegnati sul terreno, nel mondo, e che siamo il Paese che più di ogni altro ha concorso e contribuito a creare un’idea di diplomazia, per cui l’Italia possa recuperare il Mediterraneo come luogo del confronto, e che siamo il Paese che, più di ogni altro, risponde alla necessità di investire sulla sicurezza in modo innovativo, essendo leader mondiale nella cybertechnology e nella cybersecurity. Contemporaneamente pensiamo però che il ruolo dell’Italia e dell’Europa debba essere anche questo.
Ecco perché – vengo rapidamente alla seconda parte del ragionamento – il primo Consiglio europeo dopo i fatti del 13 novembre è per noi l’occasione di illustrare, in modo compiuto e organico, questa visione, che tiene insieme diplomazia, sicurezza e politica estera e che non viene meno rispetto alla politica estera del passato. Nel Consiglio europeo straordinario, c’è stato un dibattito sulla Turchia, in cui ho potuto dire ad alta voce e senza vergognarmi che, a differenza di altri colleghi che sedevano a quel tavolo e in quel consesso, rappresentavo un Paese che, pur avendo avuto Governi molto divisi l’uno dall’altro, aveva visto in due dei miei predecessori, i più longevi – vale a dire, per la destra, il Presidente Berlusconi e, per la sinistra, il presidente Prodi – una sostanziale identità di vedute sul rapporto con la Turchia, che invece altri Paesi, nei primi anni 2000, avevano combattuto, contribuendo a creare delle condizioni per lo slittamento e lo spostamento della politica estera turca. L’ho detto perché, quando vado in Europa, rappresento l’Italia e non il mio partito e non ho paura di rivendicare una linea di politica estera che abbia il senso della continuità. Contemporaneamente ho detto allora, dico in questa sede e – se mi autorizzerete – dirò domani che va respinta con forza l’equazione per cui: lotta al terrorismo uguale lotta all’immigrazione. La superficialità e il pressapochismo, infatti, vanno male dappertutto, ma in particolar modo in politica estera.
Abbiamo una grande questione immigrazione in Turchia, ma non possiamo dimenticare la grande questione immigrazione in Giordania – quell’autorevole statista che è il Re giordano lo ha ricordato molto bene, in una recente iniziativa organizzata dal Ministro degli affari esteri – in Libano, dove pure le nostre responsabilità sono forti, e, naturalmente, in tutta l’area africana, a cominciare dalla Libia, punto di approdo dei rifugiati e di partenza verso l’Europa, ma investendo in modo globale e comprensivo su tutta l’area del continente. Accanto a questo è giusto ricordare che, se poniamo il tema della questione immigrazione, guai a mettere in secondo piano ciò che sta avvenendo nei Balcani. Ancora una volta la storia ci insegna cosa accade non accogliendo la richiesta di coinvolgimento di alcuni Paesi. Lo dico due giorni dopo che la Serbia ha finalmente iniziato, su grande impulso italiano, le procedure negoziali con l’Unione europea: per l’Albania ciò era accaduto circa un anno fa. Occorre dunque rendersi conto che quei Paesi debbono essere coinvolti a pieno titolo nell’Unione europea, perché l’Europa a 28 o è troppo o è troppo poco: non può restare a questo livello. O bisognava riflettere con più attenzione prima su un certo percorso di apertura, oppure, nel momento in cui si a fatta l’Europa a 28, non si può tenere fuori parte dei Balcani, che saranno, a mio avviso, la prossima emergenza migratoria, non soltanto nel nostro Paese. Lo sono già per molti aspetti in Germania, e non solo, ma rischiano di tornare a esserlo per la drammatica situazione che affligge molte Nazioni e molti Paesi.
Non c’è spazio per la superficialità, non c’è spazio per i toni spot né per la demagogia quando si affrontano questioni di così grande rilevanza. Credo che l’Italia abbia contribuito a tracciare una rotta: quando ha chiesto di mettere al centro il Mediterraneo non ne parlava nessuno.
Era il febbraio 2014 quando siamo andati in Tunisia come prima visita ufficiale; era il marzo 2015 quando siamo stati i primi ad andare al Cremlino a chiedere che non vi fosse la consegna in appalto della politica siriana alla Russia – tutt’altro – ma che ci fosse un pieno coinvolgimento della Russia, un suo ritorno nella comunità internazionale per affrontare insieme le grande minaccia del terrorismo estremista, che rischia in prospettiva di essere un problema anche per quella grande Nazione. Siamo stati tra i primi a dire che la questione dell’immigrazione non poteva essere lasciata ai singoli Stati; che non poteva essere una questione da derubricare a vicenducola interna.
Bene, oggi possiamo dire che l’Europa è a un bivio; abbia la forza l’Unione europea di comprendere che c’è bisogno di dare una risposta che vada oltre il trimestre per trimestre, il day by day;una risposta che abbia il senso di un orizzonte ampio, progettuale. Allora sì che potremo inserire il dibattito sull’unione economica e monetaria o sul digital single market in questa dinamica, in questa prospettiva, in questo orizzonte. Ma l’Europa non può limitarsi ad essere un luogo nel quale discutiamo di «zero virgola» o di procedure; deve tornare ad avere le caratteristiche del progetto politico visionario. Ecco perché, a mio avviso – e mi avvio alla conclusione – gli altri temi che affronteremo nella discussione devono vedere un’Italia protagonista, partendo però da qui.
Noi offriamo all’Europa un arco di tempo per discutere in modo serio e argomentato di ciò che sarà non più l’Europa dei padri – cui va soltanto la gratitudine e la riconoscenza, perché quella che ha fatto l’Europa è la generazione che, nella storia del mondo, sta sicuramente ai primi posti per lungimiranza e visione – ma ciò che sarà, accanto a questo sguardo riconoscente, l’Europa dei figli.
Come possiamo continuare ad essere un Continente attrattivo se le nostre percentuali di crescita economica non sono alla pari – non dico di quelle del Sud-Est o dell’Africa – di quelle americane?
Lo dico perché, anche rispetto ad alcune voci dal sen fuggite in questo momento, se c’è una cosa che l’attuale Governo italiano può rivendicare è che ha riportato finalmente la media della crescita al livello degli altri Paesi europei. Ma quando lo dico, contestualmente dico che non basta.
L’Italia dal 1946 al 1992 è stato il Paese che è cresciuto di più di tutti in Europa. Un minimo di storia delle istituzioni e di storia economica del Paese ci porta a dire che nella Prima Repubblica l’Italia ha avuto la percentuale più alta di tutti; dal 1992 al 2013 siamo stati quelli che sono cresciuti meno di tutti, arrivando alla crescita negativa del 2,3 nel 2012, dell’1,9 nel 2013 e dello 0,4 nel 2014. Perché è accaduto questo? Per responsabilità interne? Certo, e le riforme stanno dimostrando che, una volta che fai le cose che devi fare, le misure si mettono in moto.
Se avessimo fatto il jobs act dieci anni fa, forse saremmo in condizioni diverse: provare per credere, visto che il jobs act altro non è che la riforma che Schroeder prima e la Merkel poi hanno implementato e attuato in Germania esattamente dieci anni prima di noi, in un momento di crisi della Germania, riportando l’economia tedesca a crescere. La realtà è questa; poi ci sono le opinioni e i fatti separati dalle opinioni. Questi sono i fatti. Ma il punto centrale è che, comunque sia la crescita (dello 0,1 o dello 0,2 in più o in meno), l’Europa deve tornare ad essere attrattiva, dinamica; deve chiamare i cervelli migliori e portarli in campo. E se l’Europa non è nelle condizioni di fare questo? Certo, mi riferisco a un’Europa democratica; lo può dire chi, avendo preso il 40,8 per cento dei voti, rappresenta il primo partito d’Europa con 11,2 milioni di voti. Lo può dire chi oggi si impegna a livello europeo perché il Parlamento, la Commissione e il Consiglio abbiano un ruolo.
Tuttavia, il punto fondamentale è che l’Europa che ci attende ha bisogno dell’Italia che faccia l’Italia. Negli ultimi anni – questa è la mia opinione – l’Italia è stata sotto schiaffo per mille motivi, interni ed esterni. Il fatto che l’Italia non abbia fatto sentire la propria voce nel dibattito europeo è stato un problema per il nostro Paese, ma mi piace, anzi mi dispiace pensare che, vedendo la realtà, è stato un problema anche per l’Europa, che ha smarrito una qualità del dibattito di cui ci sarebbe stato bisogno.
Pertanto, quello che stiamo cercando di fare, a partire dal Consiglio europeo di domani, non è soltanto dire che siamo contenti dell’accordo sul clima o lavorare perché non ci sia la Brexit, ma sia anche e soprattutto ricordare a tutte e a tutti noi che se l’Italia porta il proprio contributo, come quello che abbiamo individuato nella Sala degli Orazi e Curiazi e che tiene insieme sicurezza, diplomazia e azione militare, ma allo stesso tempo si occupa di educazione, valori, cultura anima, indentità e radici; se siamo in grado di fare questo, non so se l’Europa dei figli sarà lungimirante come quella dei padri, ma sarà forte come c’è bisogno che sia oggi, in una cornice così delicata e difficile del panorama politico internazionale.
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